Il personaggio principale dell’ultimo romanzo di Mauro Corona, L’ultimo sorso. Vita di Celio non è mai esistito. Creando Celio, un uomo molto più grande di lui, l’autore riesce, infatti, a fare un lavoro introspettivo e poter così guardare al proprio passato cercando di capire, raggiunta la maturità, dove sia arrivato. In un certo senso, Celio diventa un alter ego dell’autore e nella narrazione è lui la guida di cui Corona ha sentito sin da bambino il bisogno per venire a patti con le difficoltà che ha incontrato nella vita.

Non è facile però distinguere il punto dove l’animo e il sentire di Celio lascia il posto a quello di Corona. Forse per tale motivo la magia di questo libro funziona e, per chi ha negli occhi i monti delle Dolomiti friulane dove Mauro Corona è vissuto per gran parte della sua vita, risulta particolarmente struggente. Perché l’ambiente naturale, che è presente in tutti gli scritti dell’autore ertano, forgia gli animi e la vita “al limite” delle genti che in queste vallate hanno dovuto combattere, da sempre, una battaglia quotidiana. È proprio per l’asprezza delle condizioni in queste valli lontane dal clangore della società odierna che si spiegano il carattere introverso, duro, e allo stesso tempo capace di grandi sentimenti di persone come Celio. E’ gente dai volti e dalla vita segnati, che testardamente rimane abbarbicata su pendenze ricoperte da boschi cullate dal ruggito di torrenti, una popolazione che ha vissuto il dolore delle tragedie (basti pensare al disastro del Vajont), ma che ha saputo, a modo suo, rimanere in piedi.

Celio con le sue idiosincrasie è un’animo legato a questi luoghi: è nato nel 1910 in un prato di alta quota durante la fienagione tra il profumo dell’erba appena tagliata. Un’infanzia difficile, senza un padre e dove la madre che lavora per tirare avanti e che vivrà con lui fino a quando si spegnerà nel sonno, rappresenta forse il legame umano più forte, mentre i primi rudimenti di vita e di comportamento gli vengono trasmessi da un compaesano, un certo Pilo Dal Crist, che, forse, chissà, è anche il padre naturale.
Quello che più colpisce, man mano che il racconto continua e Celio cresce, è il carattere che tanto rispecchia le caratteristiche della terra che lo ha generato: un uomo di poche parole, silenzioso, ma dalle capacità di guizzi arguti e taglienti nelle brevi risposte; una mente incolta, ma allo stesso tempo fine e capace di creare una filosofia, che trova le proprie radici nelle tradizioni e nei mestieri del posto, in altre parole, un approccio alla vita che l’autore, a mano a mano, fa propria. Celio che è stato un giovane fuori dal coro, indipendente e provocatore, spaccone e menefreghista è anche un animo che, sin da bambino, sente il peso della vita, un malessere che la sua sensibilità amplifica e che lo porta inesorabilmente sulla strada dell’alcoolismo.
In un certo senso Celio è un fallito, che troverà nel bere un appiglio per domare i tormenti interiori, dovuti anche al fatto che non ha una vita propria, non si è sposato e rimane attaccato, in modo ossessivo, all’affetto alla madre. Ma soprattutto è l’attaccamento alla bottiglia (che sia di vino o di liquore) che lo porterà a una fine prematura e dolorosa, quando soffrirà di allucinazioni dovute al delirium tremens, e lo fiaccherà fisicamente e mentalmente, lasciando l’autore da solo con i ricordi delle camminate nei boschi, della raccolta delle lumache, del bracconaggio, delle arrampicate, delle ore passata a lavorare il legno, e perché no, anche delle innumerevoli bevute, che altro non sono se non le toccanti raffigurazioni della vita di Celio e, quindi, di Mauro Corona.