Succede – spesso inconsciamente, a volte dichiaratamente – che un padre diventi figlio, e una figlia diventi genitore. Un’inversione di ruoli che sembrerebbe un meccanismo naturale, quasi tenero, invece, in queste pagine lo scenario è oltremodo doloroso. Simone sta morendo di cancro – lo scopriamo immediatamente, dopotutto la malattia è il tema dominante – al pancreas – lo sapremo solo successivamente, quando la malattia prenderà il sopravvento – e i suoi figli Carla, Laura e Mario lo raggiungeranno a Milano per trascorrere gli ultimi giorni con lui, sperando che non siano gli ultimi o forse sì.
Le passeggiate a braccetto, rallentando a ogni passo; un sorriso imbastito nel tentativo di celare la crudeltà della diagnosi; imboccarlo per fargli mandare giù quel poco, un cucchiaio per ogni figlio; sopportare teneramente i suoi sbalzi d’umore e non crollare di fronte a manifesti segni di delirio; reprimere una rabbia che non può essere mostrata ma che poi è palese; commuoversi dei suoi momenti sereni e fare a pugni con una male che lo divora giorno dopo giorno.
In fin dei conti, vedere un padre prosciugarsi di vita non è affatto un bello spettacolo, lui che era il musicista, un lettore appassionato, un improvvisato archeologo e un senatore della Repubblica! Il personaggio di Simone viene fuori dalle parole della figlia Carla, che è poi la voce narrante, a spezzoni tra i momenti di riposo che il cancro galoppante gli concede: è come vedere scorrere delle diapositive, quelle dei ricordi, terribili fautori di sensi di colpa.
Un giorno, però, inevitabilmente, il resoconto del passato è l’unica cosa che resta: davanti solo porte chiuse, strade scartate per altre, sogni appena toccati, risultati mai raggiunti. […], d’improvviso scopriamo che non c’è nessun futuro, che persino il presente è fioco, e tutto fa già parte del passato.
Sarà proprio per i rimpianti e i rimorsi che Simone si decide a scoperchiare un enorme macigno svelando “il grande me” tenuto nascosto, ma senza smascherarlo: i figli saranno al cospetto di un segreto minaccioso e indecifrabile. Una trovata narrativa che permette di sostenere la lettura, lenta e difficile come l’agonia che racconta.
Una cerniera che lacera la famiglia e che si richiude solo alla fine, incitando il lettore a ricorrere la verità.
Non è un bel libro, ma può senz’altro dirsi un libro vero: chi parla e scrive si lascia trascinare dal flusso degli eventi, confessando le impressioni vissute sulla propria pelle senza filtri e senza giudizi, perché di fronte alla malattia, ci si inventa un sorriso, si scappa, si torna a sperare e si fugge di nuovo in un eterno ciclo vizioso fino all’ultimo sospiro.
La prosa ne è esplicativa, personalmente l’ho trovata veritiera, specchio di come vanno davvero le cose quando non si ha scelta e se nella prima parte il flusso di coscienza, ricco di domande aperte e riflessi incondizionati, si alterna a raptus di speranza, nel secondo atto della malattia non c’è più spazio per le diapositive di ricordi: la narrazione, come fosse un corpo in disgregazione, precipita infausta e il silenzio adombra l’intera famiglia sotto i colpi assordanti di una solo domanda «quale funzione ha perso, oggi, papà?». Quando cala il sipario, non resta nessuno, né un padre né una figlia.